La festa dell’Ascensione è la celebrazione di una partenza, di un’assenza, di un vuoto, di una mancanza che Gesù lascia.

Ed è Egli stesso a dirci che solo attraverso l’esperienza dell’assenza può venire a noi il Consolatore.

Ma cosa mai di buono può venire fuori da un’esperienza così?

Se c’è una cosa che ci spaventa è proprio l’assenza di chi amiamo, l’eclissi di ciò che conta, la scomparsa dell’orizzonte di senso che ci guida.

Per averne una vaga idea dobbiamo pensare a un bambino piccolo che tenta di camminare da solo. Inizialmente si sente forte delle mani della madre o di quelle del padre, ma a un certo punto per poter sprigionare il potenziale che è sepolto in lui, cioè la sua capacità di camminare, il padre e la madre lo lasciano, creano assenza, tolgono le mani. A prima acchito sembra un trauma, ma poi tra una caduta e un tentativo quel lasciarlo lo rende capace di camminare.

La stessa cosa fa Cristo con ciascuno di noi: se inizialmente ci sembra che Egli sia presente anche attraverso un “sentire”, è necessario poi passare attraverso un’assenza, una sua mancanza per far si che arrivi in noi ciò che può tirare fuori da ognuno il potenziale nascosto nel cuore. Ecco perché se non passiamo attraverso il mistero dell’Ascensione non potremmo nemmeno arrivare all’esperienza della Pentecoste.